Il più antico ospedale di Roma, il Santo Spirito, si trova a pochi passi dal Vaticano. A pochi passi dal luogo dove furono giustiziati i primi martiri cristiani e lo stesso san Pietro.

Tra queste mura sono passati grandi santi, per visitare e confortare gli ammalati: Filippo Neri, Carlo Borromeo, Giuseppe Calasanzio, Vincenzo Pallotti, Giovanni Bosco.

E qui ha trovato la morte, e la gloria, una piccola suora dei poveri, che il 18 aprile 1999 il Papa ha elevato all’onore degli altari. Suor Agostina, al secolo Livia Pietrantoni, vi fu uccisa il mattino del 13 novembre 1894 da un malato di tubercolosi, Giuseppe Romanelli. Un episodio tragicamente casuale, all’apparenza. Il gesto di un folle squilibrato, si direbbe. Ma per il popolo di Roma, che sa riconoscere i santi, non fu così, fin da subito.

Il giorno delle esequie di suor Agostina a Roma si bloccò la circolazione. Ne dà notizia Il Messaggero del 16 novembre 1894:

“Mai spettacolo più imponente fu visto in Roma. Fin dall’una di pomeriggio le adiacenze dell’ospedale di Santo Spirito e tutte le strade per le quali si credeva dovesse passare il corteo erano affollate di gente a segno di rendere difficoltosa la circolazione». Migliaia di persone si assieparono ai cigli delle strade, inginocchiandosi al passaggio della salma. «E non era la solita lunga fila di soldati allineati, la folla dell’ufficialità dai colori rari e smaglianti», commentava il cronista de Il Tempo: «Era il popolo tutto; era la Roma del popolo; era la gentile, caritatevole santa Roma che dava l’ultimo saluto a colei che, sacrificando palpiti, pensieri, vita si era data angelicamente alla carità, al sollievo dei miseri…”.

Sul carro funebre spiccava la corona dei fiori della comunità israelitica, che recava scritto: «Alla martire della carità». Dietro il feretro, il professor Achille Ballori, direttore dell’ospedale, gran maestro aggiunto della massoneria, che sarebbe morto anch’egli, assassinato, nel 1914, nell’atrio di Palazzo Giustiniani. Era stato lui a mettere in guardia suor Agostina da quel Romanelli, era stato lui a stilare il certificato di morte e a eseguire l’autopsia.

Suor Agostina era entrata in quell’ospedale il 13 agosto 1887, subito dopo aver ricevuto l’abito religioso. Aveva ventitré anni.

Il professor Ballori assunse la direzione dell’ospedale tre anni dopo. Il suo primo atto era stato quello di espellere i 37 Padri Concezionisti che ne curavano l’assistenza spirituale. Erano usciti in processione una volta per sempre, croce in testa, cantando il Magnificat.

Tolti i crocifissi e le immagini sacre, alle suore che restavano fu fatto divieto di pregare in pubblico, parlare di Dio agli ammalati, proporre loro i conforti religiosi.

Al Santo Spirito, suor Agostina fu introdotta dapprima nella corsia dei bambini, senza trovare difficoltà, poiché era avvezza a badare ai fratelli fin dall’infanzia. Per questo fu mandata presto nel reparto degli adulti. Difficili, e a volte pericolosi. Il clima, come si è detto, non era favorevole alla presenza delle suore. Che dovevano spesso sopportare difficoltà, insulti, oscenità, impedimenti di ogni genere, e svolgere in silenzio il loro lavoro di testimonianza. Il dottor Buglioni, in servizio presso il Santo Spirito, ha lasciato di lei un ricordo: «Sempre dolcissima, si prestava a fare non solo quello che era suo dovere, ma anche di più e molto volentieri; pronta, umile, ilare».

Gli ultimi cinque anni della vita li trascorse in corsia in mezzo ai malati di tubercolosi. Il silenzio del suo passaggio era riempito di gesti di carità. Un testimone oculare ricorda di lei:

«Alla sera, prima di ritirarsi, non mancava di accostarsi al letto dei più gravi e dei più pericolosi; raccomodava loro i guanciali e diceva loro qualche buona parola. Accadeva talvolta che ammalati strani o scontenti le facessero qualche sgarbatezza, come gettare a terra il piatto delle vivande o perfino addosso a lei. Anche in questi casi suor Agostina non perdeva la pazienza e non li trattava severamente».

Un giorno, per aver sequestrato un coltello a un degente, fu aggredita e bastonata, tanto che le consorelle iniziarono a temere per lei. «Siamo molto esposte, ma il Signore ci custodisce» rispose suor Agostina «e perciò non dobbiamo trascurare il nostro dovere di carità per sfuggire il pericolo, dovesse pure costarci la vita… Dobbiamo aspettarci tutto. Gesù fu trattato così».

Giuseppe Romanelli era un pregiudicato, noto a Roma con il soprannome di “Pippo er Ciocco”. La polizia e la direzione dell’ospedale conoscevano le sue turbolenze e quando fu espulso dal reparto per intemperanze, minacciò suor Agostina, che non c’entrava nulla, di vendicarsi su di lei.

Scrisse su un biglietto: «Suor Agostina, non ti resta che un mese di vita, morirai ammazzata dalle mie stesse mani». La sera del 12 novembre 1894 le consorelle, preoccupate per la sua salute, l’avevano invitata a prendersi alcuni giorni di riposo. Suor Agostina rispose: «Dovremo stare coricate tanto tempo dopo la morte che ci conviene stare un po’ in piedi mentre siamo vive».

La mattina del 13 novembre l’assassino l’attese in un corridoio buio che portava verso la dispensa. Tre colpi alla spalla, al braccio sinistro e alla giugulare, prima che potesse rendersi conto di ciò che accadeva. Poi, dopo una colluttazione con l’unico testimone della scena, Romanelli le infisse il pugnale nel petto. «Madonna mia, aiutami», furono le sue ultime parole.

Da un articolo di Giovanni Ricciardi, 30Giorni, n. 4 1999

“Formata alla scuola di santa Giovanna Antida Thouret, suor Agostina comprese che l’amore per Gesù domanda il generoso servizio verso i fratelli. È infatti nel loro volto, specialmente in quello dei più bisognosi, che brilla il volto di Cristo. “Dio solo” fu la “bussola” che orientò tutte le sue scelte di vita. “Tu amerai”, il primo e fondamentale comandamento posto all’inizio della “Regola di vita delle Suore della Carità”, fu la fonte ispiratrice dei gesti di solidarietà della nuova Santa, la spinta interiore che la sostenne nel dono di sé agli altri. Disposta a qualunque sacrificio, testimone eroica della carità, pagò con il sangue il prezzo della fedeltà all’Amore”. (Giovanni Paolo II, omelia Canonizzazione, 18 aprile 1999).