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In Italia, a Montemarciano

Casa di fuga di Montemarciano nacque così: una strada statale, la 16 Adriatica, a forte scorrimento; nelle vicinanze il porto di Ancona e l’aeroporto internazionale di Falconara; una superstrada che collega due grosse cittadine industriali, Fano e Fabriano; molto turismo estivo sulla “spiaggia di velluto”, tante zone non abitate, piene di centri commerciali e di piccole aziende… Insomma, le condizioni ideali per il radicamento del fenomeno della tratta a scopo di prostituzione!

Poi Free Woman, un’Associazione di volontariato impegnata a liberare le ragazze schiavizzate con il coinvolgimento di Comuni, Regione, Asl, Caritas, parrocchie, cooperative che si occupano di immigrati e la Caritas diocesana di Senigallia decisa a collaborare con progetti di accoglienza e di coscientizzazione per contrastare il fenomeno della prostituzione.

Infine, una comunità di Suore della Carità in ascolto del grido di dolore, di paura, di disprezzo, di ribellione delle ragazze nigeriane, ma anche moldave, russe, ucraine, brasiliane… spesso minorenni, costrette a subire violenza a pochi passi dalla loro comunità. Le ragazze vengono avvicinate dall’Unità di strada dell’Associazione che cerca di conquistare la loro fiducia. Solo allora può cominciare il discorso sui percorsi di uscita e finalmente qualcuna trova il coraggio di presentarsi agli uffici dell’Associazione per colloqui di orientamento e consulenza. Una volta decisa la fuga, il primo rifugio è la “Casa di Fuga”, dove la giovane può godere di un ambiente protetto, sereno, molto attento a tutte le sue necessità, paure, insicurezze.

 

“Ogni volta – racconta suor Alfreda – accogliamo fra noi il mistero di un essere umano che non vuole soccombere alla violenza, che cerca il proprio riscatto anche nelle condizioni più disperate, che implora rispetto di sé, opportunità per il futuro di figli piccoli lasciati nelle terre d’origine… A volte, fra le lacrime, raccontano delle “signore del lavoro” che nei loro Paesi di origine si approfittano di chi è in difficoltà, di chi è orfano soprattutto di padre, promettendo un lavoro all’estero in cambio di ingenti somme di denaro”. “Talvolta – aggiunge suor Domenica – ascoltiamo il racconto delle odiose violenze subite. Il solo rammentarlo è fonte di insostenibile angoscia. Riconosciamo il terrore nei loro occhi per le vendette su genitori o parenti causate dalla loro decisione di “uscire dal giro”. Raramente ci mettono a parte dell’esperienza di totale disprezzo subito negli incontri con i clienti. Sempre, al mattino e alla sera, ascoltiamo il loro lungo canto di pre-ghiera a Dio, loro liberatore. Spesso la fuga avviene all’improvviso per non mettere in sospetto i loro sfruttatori e arrivano da noi senza effetti personali, indumenti… Eppure, mai sono prive della loro Bibbia. Le ragazze nigeriane sono protestanti di varie confessioni e la Bibbia, le cui pagine sono consumate dalla preghiera e dal pianto, è il loro tesoro. Non se ne separano mai”.

“Ogni accoglienza – spiega suor Paola – è per tutte esperienza di liberazione: per noi suore dai nostri pregiudizi, dalla nostra presunzione, dal nostro perbenismo; per Benedetta, Gloria, Augustine, Joy, Viviane, Pauline… dal senso di impotenza, di fatalismo, dal giogo di sottomissione agli spiriti a cui le hanno costrette le “signore del lavoro”, dal ricordo ossessivo dell’inferno di violenza nel quale sono state tenute prigioniere. Dopo cinque otto settimane Evelyn, Mary, Beth, Tracy… consolidata la volontà di cominciare una vita nuova lasciano la “Casa di Fuga” per entrare nel percorso di protezione previsto dalla legislazione italiana (conosciuto come art. 18). Per loro si attiva la presa in carico territoriale: c’è il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, una casa seconda-accoglienza che consente maggiore autonomia e una rete di legami, amici-zie, sostegni di cittadini, associazioni, parrocchie che favoriscono l’integrazione e offrono possibilità di lavoro”.

 

Dal 2003 la Casa di Fuga ha ospitato più di quaranta ragazze provenienti da molte parti del mondo. “I ritmi delle giornate per noi suore e per le nostre ospiti – raccontano sr Luisa e sr Adelina – sono molto semplici: i pasti consumati insieme, le ore trascorse insieme a cucinare italiano, ucraino, nigeriano… spaghetti o piccantissimi piatti di carne, pesce, uova, verdura accom-pagnati dall’immancabile polenta di manioca… la festa per l’arrivo del permesso di soggiorno… l’angoscia per l’impossibilità di comunicare con i propri familiari lontani… i sogni sul futuro: un lavoro, una casa, la stabilità affettiva e – non mancano mai – tanti bambini!!!” Da due anni a questa parte, oltre al servizio di Casa di Fuga, la comunità ha accettato di sfida di accogliere anche quelle giovani che si trovano costrette a interrompere la permanenza nelle case di seconda accoglienza perché molto sofferenti dal punto di vista psicologico, con problemi di dipendenza da alcool, o di natura psichiatrica: “Non siamo una comunità terapeutica – ricorda suor Paola – e la distanza linguistica e culturale complica le cose. Semplicemente mettiamo a disposizione un ambiente sereno e senza particolari “aspettative” o pressioni. Non sono mancate, e tuttora non mancano, le difficoltà: non sempre è facile affrontare i loro momenti di crisi violenta, ma facciamo esperienza di quanto sia importante per loro prendere le distanze, almeno temporaneamente nella fase acuta, da una realtà che anche involontariamente riapre ferite, risuscita fantasmi, provoca tensioni. Ogni giovane accolta è per noi un dono e una responsabilità, è un’avventura nuova e diversa: un “mondo” entra in casa nostra e ogni volta reimpariamo a conoscerci, a relazionarci, a capirci, a stare bene insieme… E quando abbiamo salutato l’ultima ospite in partenza per una Casa di seconda accoglienza, ricomin-ciamo a tendere l’orecchio al trillo del telefono… Sarà l’Associazione per una ragazza? Speriamo!