Oggi, 20 dicembre, celebriamo la Giornata internazionale della solidarietà umana, che riconosce la solidarietà come uno dei valori fondamentali e universali che dovrebbero essere alla base delle relazioni tra i popoli.

In questa occasione abbiamo raggiunto suor Anna Rosa C., Suora della Carità che ha fatto della solidarietà e del carisma di Giovanna Antida la guida del suo cammino di servizio e cura verso il prossimo.

Mi chiamo suor Anna Rosa, originaria dell’Emilia Romagna, in Italia. Ho iniziato il mio cammino tra le Suore della Carità di santa Giovanna Antida Thouret quarant’anni fa, quando ho sentito in me una forza che mi chiamava. Nello stesso tempo, però, mettevo molte riserve. Per me, chi doveva donarsi al Signore doveva avere delle qualità specifiche e saper fare molte cose, mentre io mi sentivo molto piccola.

Nonostante queste riserve, dentro di me sentivo qualcosa che mi spingeva, e mi sono detta che almeno dovevo provare e fare questa esperienza. Quindi, dopo aver terminato la scuola per diventare infermiera, ho chiesto alle Suore della Carità di poter fare un’esperienza con loro, per poter avere modo di vedere com’era la loro vita. Ed è così che ho compreso che quella era la mia strada e ho deciso di iniziare il postulato.

Dopo un anno di postulato ho iniziato il noviziato, e per me questo è stato un tempo molto forte, durante il quale ho guardato tutta la mia vita, le cose positive e negative, per poter poi ricostruire la mia storia sulle basi di quanto il Signore mi chiedeva.

Terminato il noviziato ho iniziato un tempo di juniorato, durante il quale ho lavorato in un ospedale come infermiera professionale. Lì mi sono trovata in contatto con la sofferenza, ed è stata un’esperienza dura ma bella, perché qui ho riconosciuto Il desiderio che mi aveva spinto ad entrare nella vita religiosa: trasmettere l’amore del Signore a chi non lo conosceva o non aveva avuto la possibilità di conoscerlo, e chi soffriva dell’ingiustizia. Questo era quanto io mi portavo dentro, e quanto mia madre e mio padre mi avevano insegnato.

Ho lavorato 4-5 anni presso questo ospedale, e il 6° anno, l’anno di preparazione ai voti perpetui, mi è stato chiesto se fossi disponibile a partire per la missione. Quando avevo fatto il mio ingresso nella comunità delle Suore della Carità avevo il desiderio di partire, ma l’avevo poi messo in un cassetto, perché vedevo che era un percorso che presentava delle difficoltà, come ad esempio l’imparare una lingua nuova. Non avendo però delle difficoltà maggiori, presi i voti perpetui, ho studiato per tre mesi la lingua francese e Besancon, in Francia, e nel 1993, nel mese di agosto, sono partita per la missione in Ciad.

Non mi aspettavo niente quindi al mio arrivo ho accolto quello che ho trovato, ma nello stesso tempo ero in sulla difensiva. Mi dicevo: “Se non va, torno indietro”. Adesso sono 30 anni che sono in Ciad e non sono tornata indietro.

La mia prima esperienza è stata in un ospedale in un piccolo villaggio, Goundi, dove sono rimasta per nove anni. Quando sono arrivata, in un primo tempo, ero disorientata perché l’ospedale era totalmente diverso rispetto alle strutture alle quali ero abituata. Dovevamo arrangiarci con ciò che c’era. Mi sono subito resa conto di essere in grado di fare tante cose a volte con niente, come se ogni giorno si potessero vedere dei miracoli frutto dell’aiuto del Signore. Vedevamo persone che riprendevano la salute, e accoglievamo il rapporto di abbandono e di fiducia che le persone che venivano a curarsi avevano nei confronti delle suore.

Nel 2002 mi hanno chiesto di andare in un centro di sanità. Qui una persona, con il ruolo di infermiere, si occupava di fare le diagnosi, la prescrizione e, da una piccola farmacia, dare ai pazienti i medicinali necessari. Annessa c’era anche una maternità, dove facevamo le diagnosi pre-natale e seguivamo le gravidanze. Io, da infermiera professionale, dovetti imparare ad aiutare le donne a partorire.

Tra i nostri compiti c’era anche quello di prestare primo soccorso alle persone che avevano avuto incidenti, e che si presentavano al Centro perché l’ospedale era molto distante, circa 80 chilometri. Ci capitò di accogliere un ragazzino che era stato scaraventato via da un elefante. Lo zio lo aveva avvolto in un lenzuolo e lo aveva portato da noi. lo abbiamo medicato, suturato, gli abbiamo dato gli antibiotici. Dopo 20 giorni è tornato a casa sua con i suoi piedi, con grande gioia dello zio. Ci siamo sempre dovute arrangiare con quello che avevamo.

Dopo 4 anni trascorsi in questo Centro di sanità ho fatto un anno di sospensione in Italia, ho fatto dei corsi spirituali e anche professionali, per poter gestire un centro di sanità.

Poi, quando sono tornata, mi hanno chiesto di cambiare comunità e sono partita per la capitale, a N’djamena, e sono tornata a lavorare in un ospedale universitario dei gesuiti. Per garantire una qualità maggiore di cure, qui era stata istituita un’università di medicina e una scuola per infermieri. Io lì mi sono trovata a lavorare per 10 anni in sala operatoria.

Dopo un periodo in cui mia madre non è stata bene e sono dovuta rientrare in Italia, sono tornata a Goundi, presso l’ospedale. Per avere meno personale e avere maggiore qualità di servizio avevamo radunato i reparti, dividendo tutti quelli che avevano bisogno di sorveglianza continua o reparto intensivo (pediatria, medicina e chirurgia) da una parte; e dall’altra il servizio di post-intensivo, che non aveva la guardia di notte. Oltre a questi c’era anche il reparto maternità.

Come personale delle suore c’ero io, che lavoravo al reparto intensivo, e un’altra giovane suora juniores che lavorava al centro nutrizionale. Si trattava di un orfanotrofio, più che un centro nutrizionale, dove venivano accolti bambini, orfani di madre, e si richiedeva la presenza di una nonna, con una ragazzina, che si prendessero cura dell’orfano di mamma. Potevano stare lì fino a due anni, periodo critico per la crescita del bambino, e poi, dopo i due anni, rientravano nella famiglia del padre. Una suora seguiva l’alimentazione dei bambini, insegnava alle nonne a gestire in bambino anche successivamente. Abbiamo avuto dei buoni risultati e i bambini erano in salute.

Quando sono partita come giovane avevo sicurezza interiore, ma avevo tanti dubbi e mettevo tante barriere, oggi posso dire che sono più contenta, mi sento più serena di quando sono partita e sono più convinta oggi che ieri di ciò che sto facendo, anche se non mancano le difficoltà, che si trovano ovunque. Io ho avuto anche molte prove nella famiglia, ma sono state prove che mi hanno fortificato e mi hanno fatto crescere, e oggigiorno mi hanno portato a fare delle cose che non avrei mai pensato di fare.

Ciò che mi convinse a fare la domanda di ingresso alla Suore della Carità fu un’esperienza in una casa di riposo durante il postulato. Lì avevo visto come le suore servivano questi anziani, la tenerezza che usavano. Questo mi colpì molto, ed è quello che oggigiorno rivedo nella mia missione: portare e trasmettere questo amore di Cristo.