MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
VI GIORNATA MONDIALE DEI POVERI
Domenica XXXIII del Tempo Ordinario – 13 novembre 2022
1. «Gesù Cristo […] si è fatto povero per voi» (cfr 2 Cor 8,9). Con queste parole l’apostolo Paolo si rivolge ai primi cristiani di Corinto, per dare fondamento al loro impegno di solidarietà con i fratelli bisognosi. La Giornata Mondiale dei Poveri torna anche quest’anno come sana provocazione per aiutarci a riflettere sul nostro stile di vita e sulle tante povertà del momento presente.
Qualche mese fa, il mondo stava uscendo dalla tempesta della pandemia, mostrando segni di recupero economico che avrebbe restituito sollievo a milioni di persone impoverite dalla perdita del lavoro. Si apriva uno squarcio di sereno che, senza far dimenticare il dolore per la perdita dei propri cari, prometteva di poter tornare finalmente alle relazioni interpersonali dirette, a incontrarsi di nuovo senza più vincoli o restrizioni. Ed ecco che una nuova sciagura si è affacciata all’orizzonte, destinata ad imporre al mondo un scenario diverso.
La guerra in Ucraina è venuta ad aggiungersi alle guerre regionali che in questi anni stanno mietendo morte e distruzione. Ma qui il quadro si presenta più complesso per il diretto intervento di una “superpotenza”, che intende imporre la sua volontà contro il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Si ripetono scene di tragica memoria e ancora una volta i ricatti reciproci di alcuni potenti coprono la voce dell’umanità che invoca la pace.
2. Quanti poveri genera l’insensatezza della guerra! Dovunque si volga lo sguardo, si constata come la violenza colpisca le persone indifese e più deboli. Deportazione di migliaia di persone, soprattutto bambini e bambine, per sradicarle e imporre loro un’altra identità. Ritornano attuali le parole del Salmista di fronte alla distruzione di Gerusalemme e all’esilio dei giovani ebrei: «Lungo i fiumi di Babilonia / là sedevamo e piangevamo / ricordandoci di Sion. / Ai salici di quella terra / appendemmo le nostre cetre, / perché là ci chiedevano parole di canto, / coloro che ci avevano deportato, / allegre canzoni i nostri oppressori. / […] Come cantare i canti del Signore / in terra straniera?» (Sal 137,1-4).
Sono milioni le donne, i bambini, gli anziani costretti a sfidare il pericolo delle bombe pur di mettersi in salvo cercando rifugio come profughi nei Paesi confinanti. Quanti poi rimangono nelle zone di conflitto, ogni giorno convivono con la paura e la mancanza di cibo, acqua, cure mediche e soprattutto degli affetti. In questi frangenti la ragione si oscura e chi ne subisce le conseguenze sono tante persone comuni, che vengono ad aggiungersi al già elevato numero di indigenti. Come dare una risposta adeguata che porti sollievo e pace a tanta gente, lasciata in balia dell’incertezza e della precarietà?
3. In questo contesto così contraddittorio viene a porsi la VI Giornata Mondiale dei Poveri, con l’invito – ripreso dall’apostolo Paolo – a tenere lo sguardo fisso su Gesù, il quale «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9). Nella sua visita a Gerusalemme, Paolo aveva incontrato Pietro, Giacomo e Giovanni i quali gli avevano chiesto di non dimenticare i poveri. La comunità di Gerusalemme, in effetti, si trovava in gravi difficoltà per la carestia che aveva colpito il Paese. E l’Apostolo si era subito preoccupato di organizzare una grande colletta a favore di quei poveri. I cristiani di Corinto si mostrarono molto sensibili e disponibili. Su indicazione di Paolo, ogni primo giorno della settimana raccolsero quanto erano riusciti a risparmiare e tutti furono molto generosi.
Come se il tempo non fosse mai trascorso da quel momento, anche noi ogni domenica, durante la celebrazione della santa Eucaristia, compiamo il medesimo gesto, mettendo in comune le nostre offerte perché la comunità possa provvedere alle esigenze dei più poveri. È un segno che i cristiani hanno sempre compiuto con gioia e senso di responsabilità, perché nessun fratello e sorella debba mancare del necessario. Lo attestava già il resoconto di San Giustino, che, nel secondo secolo, descrivendo all’imperatore Antonino Pio la celebrazione domenicale dei cristiani, scriveva così: «Nel giorno chiamato “del Sole” ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei profeti finché il tempo lo consente. […] Si fa quindi la spartizione e la distribuzione a ciascuno degli elementi consacrati e attraverso i diaconi se ne manda agli assenti. I facoltosi e quelli che lo desiderano danno liberamente, ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il sacerdote. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, i carcerati, gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno» (Prima Apologia, LXVII, 1-6).
4. Tornando alla comunità di Corinto, dopo l’entusiasmo iniziale il loro impegno cominciò a venire meno e l’iniziativa proposta dall’Apostolo perse di slancio. È questo il motivo che spinge Paolo a scrivere in maniera appassionata rilanciando la colletta, «perché, come vi fu la prontezza del volere, così vi sia anche il compimento, secondo i vostri mezzi» (2 Cor 8,11).
Penso in questo momento alla disponibilità che, negli ultimi anni, ha mosso intere popolazioni ad aprire le porte per accogliere milioni di profughi delle guerre in Medio Oriente, in Africa centrale e ora in Ucraina. Le famiglie hanno spalancato le loro case per fare spazio ad altre famiglie, e le comunità hanno accolto con generosità tante donne e bambini per offrire loro la dovuta dignità. Tuttavia, più si protrae il conflitto, più si aggravano le sue conseguenze. I popoli che accolgono fanno sempre più fatica a dare continuità al soccorso; le famiglie e le comunità iniziano a sentire il peso di una situazione che va oltre l’emergenza. È questo il momento di non cedere e di rinnovare la motivazione iniziale. Ciò che abbiamo iniziato ha bisogno di essere portato a compimento con la stessa responsabilità.
5. La solidarietà, in effetti, è proprio questo: condividere il poco che abbiamo con quanti non hanno nulla, perché nessuno soffra. Più cresce il senso della comunità e della comunione come stile di vita e maggiormente si sviluppa la solidarietà. D’altronde, bisogna considerare che ci sono Paesi dove, in questi decenni, si è attuata una crescita di benessere significativo per tante famiglie, che hanno raggiunto uno stato di vita sicuro. Si tratta di un frutto positivo dell’iniziativa privata e di leggi che hanno sostenuto la crescita economica congiunta a un concreto incentivo alle politiche familiari e alla responsabilità sociale. Il patrimonio di sicurezza e stabilità raggiunto possa ora essere condiviso con quanti sono stati costretti a lasciare le loro case e il loro Paese per salvarsi e sopravvivere. Come membri della società civile, manteniamo vivo il richiamo ai valori di libertà, responsabilità, fratellanza e solidarietà. E come cristiani, ritroviamo sempre nella carità, nella fede e nella speranza il fondamento del nostro essere e del nostro agire.
6. È interessante osservare che l’Apostolo non vuole obbligare i cristiani costringendoli a un’opera di carità. Scrive infatti: «Non dico questo per darvi un comando» (2 Cor 8,8); piuttosto, egli intende «mettere alla prova la sincerità» del loro amore nell’attenzione e premura verso i poveri (cfr ibid.). A fondamento della richiesta di Paolo sta certamente la necessità di aiuto concreto, tuttavia la sua intenzione va oltre. Egli invita a realizzare la colletta perché sia segno dell’amore così come è stato testimoniato da Gesù stesso. Insomma, la generosità nei confronti dei poveri trova la sua motivazione più forte nella scelta del Figlio di Dio che ha voluto farsi povero Lui stesso.
L’Apostolo, infatti, non teme di affermare che questa scelta di Cristo, questa sua “spogliazione”, è una «grazia», anzi, «la grazia del Signore nostro Gesù Cristo» (2 Cor 8,9), e solo accogliendola noi possiamo dare espressione concreta e coerente alla nostra fede. L’insegnamento di tutto il Nuovo Testamento ha una sua unità intorno a questo tema, che trova riscontro anche nelle parole dell’apostolo Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla» (Gc 1,22-25).
7. Davanti ai poveri non si fa retorica, ma ci si rimbocca le maniche e si mette in pratica la fede attraverso il coinvolgimento diretto, che non può essere delegato a nessuno. A volte, invece, può subentrare una forma di rilassatezza, che porta ad assumere comportamenti non coerenti, quale è l’indifferenza nei confronti dei poveri. Succede inoltre che alcuni cristiani, per un eccessivo attaccamento al denaro, restino impantanati nel cattivo uso dei beni e del patrimonio. Sono situazioni che manifestano una fede debole e una speranza fiacca e miope.
Sappiamo che il problema non è il denaro in sé, perché esso fa parte della vita quotidiana delle persone e dei rapporti sociali. Ciò su cui dobbiamo riflettere è, piuttosto, il valore che il denaro possiede per noi: non può diventare un assoluto, come se fosse lo scopo principale. Un simile attaccamento impedisce di guardare con realismo alla vita di tutti i giorni e offusca lo sguardo, impedendo di vedere le esigenze degli altri. Nulla di più nocivo potrebbe accadere a un cristiano e a una comunità dell’essere abbagliati dall’idolo della ricchezza, che finisce per incatenare a una visione della vita effimera e fallimentare.
Non si tratta, quindi, di avere verso i poveri un comportamento assistenzialistico, come spesso accade; è necessario invece impegnarsi perché nessuno manchi del necessario. Non è l’attivismo che salva, ma l’attenzione sincera e generosa che permette di avvicinarsi a un povero come a un fratello che tende la mano perché io mi riscuota dal torpore in cui sono caduto. Pertanto, «nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali. […] Nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 201). È urgente trovare nuove strade che possano andare oltre l’impostazione di quelle politiche sociali «concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che unisca i popoli» (Enc. Fratelli tutti, 169). Bisogna tendere invece ad assumere l’atteggiamento dell’Apostolo che poteva scrivere ai Corinzi: «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza» (2 Cor 8,13).
8. C’è un paradosso che oggi come nel passato è difficile da accettare, perché si scontra con la logica umana: c’è una povertà che rende ricchi. Richiamando la “grazia” di Gesù Cristo, Paolo vuole confermare quello che Lui stesso ha predicato, cioè che la vera ricchezza non consiste nell’accumulare «tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano» (Mt 6,19), ma piuttosto nell’amore vicendevole che ci fa portare i pesi gli uni degli altri così che nessuno sia abbandonato o escluso. L’esperienza di debolezza e del limite che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, e ora la tragedia di una guerra con ripercussioni globali, devono insegnare qualcosa di decisivo: non siamo al mondo per sopravvivere, ma perché a tutti sia consentita una vita degna e felice. Il messaggio di Gesù ci mostra la via e ci fa scoprire che c’è una povertà che umilia e uccide, e c’è un’altra povertà, la sua, che libera e rende sereni.
La povertà che uccide è la miseria, figlia dell’ingiustizia, dello sfruttamento, della violenza e della distribuzione ingiusta delle risorse. È la povertà disperata, priva di futuro, perché imposta dalla cultura dello scarto che non concede prospettive né vie d’uscita. È la miseria che, mentre costringe nella condizione di indigenza estrema, intacca anche la dimensione spirituale, che, anche se spesso è trascurata, non per questo non esiste o non conta. Quando l’unica legge diventa il calcolo del guadagno a fine giornata, allora non si hanno più freni ad adottare la logica dello sfruttamento delle persone: gli altri sono solo dei mezzi. Non esistono più giusto salario, giusto orario lavorativo, e si creano nuove forme di schiavitù, subite da persone che non hanno alternativa e devono accettare questa velenosa ingiustizia pur di racimolare il minimo per il sostentamento.
La povertà che libera, al contrario, è quella che si pone dinanzi a noi come una scelta responsabile per alleggerirsi della zavorra e puntare sull’essenziale. In effetti, si può facilmente riscontrare quel senso di insoddisfazione che molti sperimentano, perché sentono che manca loro qualcosa di importante e ne vanno alla ricerca come erranti senza meta. Desiderosi di trovare ciò che possa appagarli, hanno bisogno di essere indirizzati verso i piccoli, i deboli, i poveri per comprendere finalmente quello di cui avevano veramente necessità. Incontrare i poveri permette di mettere fine a tante ansie e paure inconsistenti, per approdare a ciò che veramente conta nella vita e che nessuno può rubarci: l’amore vero e gratuito. I poveri, in realtà, prima di essere oggetto della nostra elemosina, sono soggetti che aiutano a liberarci dai lacci dell’inquietudine e della superficialità.
Un padre e dottore della Chiesa, San Giovanni Crisostomo, nei cui scritti si incontrano forti denunce contro il comportamento dei cristiani verso i più poveri, scriveva: «Se non puoi credere che la povertà ti faccia diventare ricco, pensa al Signore tuo e smetti di dubitare di questo. Se egli non fosse stato povero, tu non saresti ricco; questo è straordinario, che dalla povertà derivò abbondante ricchezza. Paolo intende qui con “ricchezze” la conoscenza della pietà, la purificazione dai peccati, la giustizia, la santificazione e altre mille cose buone che ci sono state date ora e sempre. Tutto ciò lo abbiamo grazie alla povertà» (Omelie sulla II Lettera ai Corinzi, 17,1).
9. Il testo dell’Apostolo a cui si riferisce questa VI Giornata Mondiale dei Poveri presenta il grande paradosso della vita di fede: la povertà di Cristo ci rende ricchi. Se Paolo ha potuto dare questo insegnamento – e la Chiesa diffonderlo e testimoniarlo nei secoli – è perché Dio, nel suo Figlio Gesù, ha scelto e percorso questa strada. Se Lui si è fatto povero per noi, allora la nostra stessa vita viene illuminata e trasformata, e acquista un valore che il mondo non conosce e non può dare. La ricchezza di Gesù è il suo amore, che non si chiude a nessuno e a tutti va incontro, soprattutto a quanti sono emarginati e privi del necessario. Per amore ha spogliato sé stesso e ha assunto la condizione umana. Per amore si è fatto servo obbediente, fino a morire e a morire in croce (cfr Fil 2,6-8). Per amore si è fatto «pane di vita» (Gv 6,35), perché nessuno manchi del necessario e possa trovare il cibo che nutre per la vita eterna. Anche ai nostri giorni sembra difficile, come lo fu allora per i discepoli del Signore, accettare questo insegnamento (cfr Gv 6,60); ma la parola di Gesù è netta. Se vogliamo che la vita vinca sulla morte e la dignità sia riscattata dall’ingiustizia, la strada è la sua: è seguire la povertà di Gesù Cristo, condividendo la vita per amore, spezzando il pane della propria esistenza con i fratelli e le sorelle, a partire dagli ultimi, da quanti mancano del necessario, perché sia fatta uguaglianza, i poveri siano liberati dalla miseria e i ricchi dalla vanità, entrambe senza speranza.
10. Il 15 maggio scorso ho canonizzato Fratel Charles de Foucauld, un uomo che, nato ricco, rinunciò a tutto per seguire Gesù e diventare con Lui povero e fratello di tutti. La sua vita eremitica, prima a Nazaret e poi nel deserto sahariano, fatta di silenzio, preghiera e condivisione, è una testimonianza esemplare di povertà cristiana. Ci farà bene meditare su queste sue parole: «Non disprezziamo i poveri, i piccoli, gli operai; non solo essi sono i nostri fratelli in Dio, ma sono anche quelli che nel modo più perfetto imitano Gesù nella sua vita esteriore. Essi ci rappresentano perfettamente Gesù, l’Operaio di Nazaret. Sono primogeniti tra gli eletti, i primi chiamati alla culla del Salvatore. Furono la compagnia abituale di Gesù, dalla sua nascita alla sua morte […]. Onoriamoli, onoriamo in essi le immagini di Gesù e dei suoi santi genitori […]. Prendiamo per noi [la condizione] che egli ha preso per sé […]. Non cessiamo mai di essere in tutto poveri, fratelli dei poveri, compagni dei poveri, siamo i più poveri dei poveri come Gesù, e come lui amiamo i poveri e circondiamoci di loro» ( Commenti al Vangelo di Luca, Meditazione 263). [1] Per Fratel Charles queste non furono solo parole, ma stile concreto di vita, che lo portò a condividere con Gesù il dono della vita stessa.
Questa VI Giornata Mondiale dei Poveri diventi un’opportunità di grazia, per fare un esame di coscienza personale e comunitario e domandarci se la povertà di Gesù Cristo è la nostra fedele compagna di vita.
Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2022, Memoria di Sant’Antonio di Padova.
FRANCESCO
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[1] Meditazione n. 263 su Lc 2,8-20: C. DE FOUCAULD, La Bonté de Dieu. Méditations sur les saints Evangiles (1), Nouvelle Cité, Montrouge 1996, 214-216.