Beata Nemesia Valle: La vita
Giulia Valle nasce ad Aosta il 26 giugno 1847, donando tanta felicità a una coppia giovane e benestante di Donnas che aveva già perso prematuramente i due figli precedenti. Anselmo Valle e Maria Cristina Dalbard, suoi genitori, la conducono al fonte battesimale il 26 giugno 1847, presso l’antica collegiata di Sant’ Orso e la chiamano Maddalena, Teresa, Giulia. Segue la nascita di Vincenzo. La sua infanzia trascorre serena, tra il lavoro di modista della mamma e i viaggi e i commerci del padre. Animata da un profondo senso religioso, Maria Cristina Dalbard ispira ai due figli, accanto ad una visione serena della vita, anche un’autentica apertura verso gli altri e un’indole generosa che orientano il temperamento particolarmente vivace e luminoso e la naturale curiosità della piccola Giulia.
Nel corso del 1850, per esigenze di lavoro, Anselmo Valle deve trasferirsi in Francia, a Besançon e decide di portare con sé l’intera famiglia. Il soggiorno, purtroppo, si interrompe traumaticamente per la morte prematura della moglie Maria Cristina, quando Giulia ha solo cinque anni. Insieme a Vincenzo, è affidata al nonno paterno e a una zia nubile, in un ambiente troppo austero, nel quale i due fratelli percepiscono tutta la tristezza di essere orfani.
Quando Giulia compie 11 anni, per continuare gli studi viene mandata di nuovo a Besançon, in un educandato delle Suore della Carità, dove apprende bene la lingua francese, diventa abile nel suonare il pianoforte, nel ricamare e nel dipingere, arricchisce la sua cultura e si accosta ai testi dei grandi maestri della spiritualità cattolica, da Vincenzo de’ Paoli a Francesco di Sales.
Dopo aver ultimato gli studi, Giulia è accolta dal padre non più a Donnas, ma a Pont-Saint-Martin, perché si è risposato. Difficoltà e disagi contrassegnano il ritorno in famiglia di Giulia, a causa dei difficili rapporti con la seconda moglie di Anselmo Valle. Giulia si trova nuovamente a contatto con quell’ambiente privo di comprensione che aveva già sperimentato da bambina a casa del nonno; un ambiente sempre più estraneo soprattutto dopo l’allontanamento volontario del fratello Vincenzo, a causa dei continui contrasti con la matrigna. E Giulia, inspiegabilmente, non saprà mai più dove sia finito l’amato fratello.
Affronta questo difficile momento della sua vita cercando conforto fuori dalle mura domestiche, soprattutto presso i parenti della madre, che costantemente va a trovare a Donnas: con loro può tornare con la memoria ai giorni della sua infanzia, al ricordo della figura materna e degli anni felici passati in sua compagnia.
Forse per questo stesso motivo, per Giulia è facile ritrovare nelle Suore della Carità, stabilitesi a Pont-Saint-Martin, le sue insegnanti di Besançon che la incoraggiano e la sostengono. Certamente ne osserva con maggiore consapevolezza e piacevole attrattiva il loro stile di vita di carità. Giulia diventa un’assidua frequentatrice della piccola comunità di suore dedite all’insegnamento e all’educazione della fanciulle e presto inizia ad aiutare le suore nel catechismo, nell’insegnare il ricamo su telaio e nel sorvegliare le piccole durante le ricreazioni.
Quando per Giulia è il momento di interrogarsi sul proprio futuro, i suoi studi a Besançon e la collaborazione con le Suore di Pont-Saint-Martin contribuiscono a far maturare in lei un’autentica predilezione per la figura dell’insegnante, capace di rappresentare per i giovani un punto di riferimento e una guida per la loro vita. Ma la figura dell’insegnante, per Giulia, è indissolubilmente legata alla scelta religiosa, che unisce insieme donazione totale a Dio, impegno educativo, opere di carità, vita in comune.
Papà Anselmo è sorpreso della decisione della figlia per la vita religiosa, tenta di dissuaderla, ma finisce per acconsentire alla sua scelta e l’8 settembre 1866 l’accompagna a Vercelli, nel Monastero Santa Margherita, dove le Suore della Carità hanno un noviziato: per Giulia è la nascita a una vita nuova, nella pace e nella gioia, pur tra le lacrime di un nuovo distacco.
Al temine del noviziato, Giulia riceve l’abito religioso e con l’abito, quale segno di inizio di vita nuova, un nome nuovo: suor Nemesia. Nemesio è il nome di un martire dei primi secoli del Cristianesimo. Ne è contenta. Questo nome deve diventare un programma di vita:”Testimoniare il mio amore a Gesù, fino in fondo, a qualunque costo, per sempre”.
L’inizio della sua missione avviene a Tortona, in provincia di Alessandria, presso l’Istituto San Vincenzo, sede di una scuola elementare e media, di un educandato, di un orfanotrofio. Suor Nemesia diventa presto punto di riferimento per ogni iniziativa formativa, apostolica e missionaria. È presente con l’insegnamento, con la partecipazione in prima persona alle varie iniziative, con l’apertura del cuore e con le braccia anche dove c’è un lavoro umile da svolgere, dove c’è una sofferenza da consolare, dove un disagio impedisce relazioni serene, dove la fatica, il dolore, la povertà limitano la qualità della vita, dove ci sono da intraprendere sentieri nuovi per le riforme scolastiche e per la catechesi.
“Oh, il cuore di Suor Nemesia”! Le allieve, le famiglie, le orfane, i poveri, i seminaristi, i vicini militari di leva che l’avvicinano per una lettera, per chiedere di rammendare un indumento, per farsi lenire una nostalgia di casa, tutti sono convinti di avere un posto particolare nel suo cuore, a maggior ragione dopo la nomina a Superiora che ella accetta solo per poter servire meglio.
Gli impegni sono tanti, deve anche far quadrare i conti sempre in rosso dell’Istituto, ma se qualcuno ha bisogno di parlarle, ascolta attentamente, come non avesse nessun altro pensiero. Non mancano gli attriti con le consorelle, ma la sua calma è disarmante. Sferruzza continuamente, provvedendo così alla biancheria delle orfanelle, dei seminaristi per i quali ha una speciale predilezione e anche dei soldati del vicino distretto militare. Le generazioni si susseguono: tutti vogliono mantenere i rapporti con suor Nemesia, ritornano al collegio per presentare un fidanzato o far conoscere un bimbo appena nato.
Anche se i soldi non bastano mai, si prodiga per le missioni. Il direttore spirituale dell’istituto, don Giuseppe Carbone, fattosi cappuccino, parte per l’Eritrea. Lei lo sostiene e con tante iniziative raccoglie denaro per aiutarlo. Nasce così il primo circolo missionario della città. Aiuta come può il giovane don Luigi Orione, fondatore dei Figli della Divina Provvidenza e ospita più volte la beata Teresa Grillo Michel, fondatrice ad Alessandria delle Piccole Suore della Divina Provvidenza. Con loro stabilisce un’intensa e feconda collaborazione, condividendone gli ideali religiosi e la sollecitudine caritativa.
Il 10 maggio 1903 suor Nemesia deve lasciare Tortona: è attesa a Borgaro Torinese, piccolo paese a pochi chilometri da Torino, dove sta aprendo un noviziato, per la nuova provincia di Torino. Qui le giovani novizie aspettano una maestra che le accompagni lungo un cammino per loro nuovo, austero, ma impregnato di gioia per la donazione a Dio e ai poveri, secondo lo spirito di santa Giovanna Antida Thouret.
Suor Nemesia nell’ambiente di Borgaro è presenza attiva accanto alle sue collaboratrici, a chi lavora nell’interno della casa, nel parco, nell’orto e soprattutto accanto alle giovani. Il suo metodo di formazione è sempre all’insegna della bontà, della comprensione che educa alla rinuncia per amore, della pazienza che sa attendere e sa trovare la via giusta che conviene a ciascuna. Le sue novizie ricordano: “Ci conosceva ad una ad una, capiva i nostri bisogni, ci trattava ciascuna secondo la nostra indole, ci chiedeva quello che riusciva a farci amare”.
Nell’arco di tredici anni, cinquecento novizie imparano da lei la confidenza con Dio, l’amore alla preghiera, la dedizione nel servizio dei poveri, il significato evangelico della comunità; sanno apprezzare la sua testimonianza di fortezza di fronte alle tribolazioni; vogliono imitare una santità così espressa e vissuta giorno dopo giorno:”La santità non consiste nel fare molte cose o nel farne di grandi, ma nel fare ciò che Dio chiede a noi, con pazienza, con amore, soprattutto con la fedeltà al proprio dovere, frutto di grande amore”. “…Santo è chi si consuma al proprio posto, ogni giorno, per il Signore. L’amore donato è la sola cosa che rimane: prima della tua fine cerca di aver amato molto!”
Ma la Superiora Provinciale ha un carattere palesemente non concordante con il sentire e l’agire della prima maestra delle novizie. Secondo lei, un metodo più rigido avrebbe forgiato le future religiose in maniera più marcata e affidabile. Tale differenza di vedute genera rilevanti contrasti che portano a rimproveri e umiliazioni anche pubblici. Suor Nemesia accoglie tutto in silenzio e nel silenzio continua il suo cammino, senza venir meno alle sue responsabilità: “Di stazione in stazione percorriamo la nostra via nel deserto…e se il deserto è sordo, Colui che ci ha creato sarà sempre in ascolto… .”
Gli anni di Borgaro Torinese rappresentano per suor Nemesia un’autentica stagione di prova, per le difficoltà e le incomprensioni. Pur così equilibrata e serena nella sua vita interiore e nel metodo di formazione delle novizie, è torturata da un’angoscia senza nome. Le sembra di non capire più, di essere andata fuori strada: la sua Superiora Provinciale, lo si vede chiaramente, non l’approva; e consorelle la accusano di debolezza… Le costanti difficoltà e incomprensioni contribuiscono a peggiorare la sua salute, che si aggrava improvvisamente nell’autunno del 1916. Colpita da una grave polmonite, muore dopo sei giorni di agonia, il 18 dicembre di quello stesso anno.
La preghiera che ha fatto sua fin dagli inizi: “Gesù spogliami di me, rivestimi di Te” l’ha accompagnata per tutta la vita. Ora può dire: “non sono più per nessuno”. Lo spogliamento è totale. È l’estrema offerta di un’esistenza tutta donata all’Amore.
Nell’arco di tredici anni, cinquecento novizie imparano da lei la confidenza con Dio, l’amore alla preghiera, la dedizione nel servizio dei poveri, il significato evangelico della comunità; sanno apprezzare la sua testimonianza di fortezza di fronte alle tribolazioni; vogliono imitare una santità così espressa e vissuta giorno dopo giorno:”La santità non consiste nel fare molte cose o nel farne di grandi, ma nel fare ciò che Dio chiede a noi, con pazienza, con amore, soprattutto con la fedeltà al proprio dovere, frutto di grande amore”. “…Santo è chi si consuma al proprio posto, ogni giorno, per il Signore. L’amore donato è la sola cosa che rimane: prima della tua fine cerca di aver amato molto!”
Ma la Superiora Provinciale ha un carattere palesemente non concordante con il sentire e l’agire della prima maestra delle novizie. Secondo lei, un metodo più rigido avrebbe forgiato le future religiose in maniera più marcata e affidabile. Tale differenza di vedute genera rilevanti contrasti che portano a rimproveri e umiliazioni anche pubblici. Suor Nemesia accoglie tutto in silenzio e nel silenzio continua il suo cammino, senza venir meno alle sue responsabilità: “Di stazione in stazione percorriamo la nostra via nel deserto…e se il deserto è sordo, Colui che ci ha creato sarà sempre in ascolto… .”
Gli anni di Borgaro Torinese rappresentano per suor Nemesia un’autentica stagione di prova, per le difficoltà e le incomprensioni. Pur così equilibrata e serena nella sua vita interiore e nel metodo di formazione delle novizie, è torturata da un’angoscia senza nome. Le sembra di non capire più, di essere andata fuori strada: la sua Superiora Provinciale, lo si vede chiaramente, non l’approva; e consorelle la accusano di debolezza… Le costanti difficoltà e incomprensioni contribuiscono a peggiorare la sua salute, che si aggrava improvvisamente nell’autunno del 1916. Colpita da una grave polmonite, muore dopo sei giorni di agonia, il 18 dicembre di quello stesso anno.
La preghiera che ha fatto sua fin dagli inizi: “Gesù spogliami di me, rivestimi di Te” l’ha accompagnata per tutta la vita. Ora può dire: “non sono più per nessuno”. Lo spogliamento è totale. È l’estrema offerta di un’esistenza tutta donata all’Amore.